L’amore di una madre – Tommaso Vercellio

L’amore di una madre – Tommaso Vercellio

Sono qui solo nel mio salotto romano, e tutto tace a quest’ora della notte. Il silenzio è rotto dal respiro ritmico e fluente di mia madre che dorme nella stanza poco più in là. Domani lei partirà per Milano, ed io rimarrò solo.

Sono figlio unico, ed ho un rapporto molto stretto con mia mamma. Papà lo definisce morboso, i parenti ridono e sorridono, perché rappresentiamo una cosa buffa. Non è trendy essere mammoni, è poco virile, poco “maschio” per un uomo.

Poco mi importa. Sono cresciuto con una mamma multitasking, pioniera nel suo genere. Oggi tante madri, si sentono in colpa perché non riescono a svolgere il loro “ruolo” in modo adeguato, prese dai troppi impegni lavorativi, dalle cene con le amiche alle ore passate in palestra.

Mia madre è un medico e non mi ha fatto mai mancare niente, pur continuando a svolgere la sua professione a tempo pieno.

 Non sono qui a sperticarmi in elogi od encomi. Lei ha tanti difetti, imperfezioni caratteriali, sfumature umorali che la rendono insopportabile. Ma solo poche volte. Perché quando lei non è con me, io sono un uomo solo.

La solitudine non fa piacere a nessuno, tanto meno al sottoscritto, ma non sono mai riuscito a riempirla con serate con amici, fidanzate ammiccanti, lavori asfissianti. Io ho riempito la mia solitudine con la presenza di mia madre.

Il nostro rapporto è alla base di tante mie sofferenze, di nostre sofferenze (il rapporto con la madre è simbiotico), ma anche di momenti di felicità assoluta, vera, precisa, pulita e tenera. A volte basta uno sguardo per capirci.

Certe volte, penso di aver fatto un casino della mia vita. Mi sono laureato in giurisprudenza, perché volevo fare il magistrato, e svolgere una professione che fosse altrettanto nobile ed utile, profonda e sincera, come rendere giustizia e curare un malato, come fa mia mamma medico. Ma dopo due tentativi infruttuosi, e tanti anni riposti nello studio e nelle disattese speranze, mi sento stanco e sfiduciato. Mi piacerebbe guadagnare, lavorare, avere una posizione di prestigio, e dire che faccio qualcosa.

Infondo ora sto scrivendo e questo mi rende meno inutile. Alle volte, troppe volte, i pensieri mi affollano la mente. Cosi prendo ansiolitici per calmarmi, come fossero pastiglie “Leone”. Ho iniziato anche a bere. Si, avete capito. Come gli scrittori bohémienne, ho iniziato a bere dopo che ho perso la battaglia con il concorso. D’altra parte, Charles Bukowski diceva:” Se succede qualcosa di brutto, bevi per dimenticare. Se succede qualcosa di bello, bevi per festeggiare. E se non succede niente, bevi per far succedere qualcosa”.

Certe volte, come ho detto, sono arrabbiato con mia madre, perché lei ha avuto tutto dalla vita, io ho avuto solo lei. Le dico sempre:” Vorrei tu immaginassi un solo attimo, che cosa avresti provato e che cosa avresti fatto, se non ti fossi riuscita a laureare in medicina e a fare il medico”.

Glielo dico, affinché possa comprendere, senza compatirmi, la mia situazione. Una situazione di impotenza, di delusione, di amarezza, scoramento e scoraggiamento.

Lei mi taccia di comprarmi vestiti, scarpe, orologi, e macchine. Beh, sono cose che mi aiutano a non pensare, a sviare l’attenzione, a non vedere quello che la realtà troppe volte ci mette e mi mette davanti.

Le chiedo sempre scusa per i miei comportamenti del passato, di tutti e di nessuno escluso. Li ho messi in atto per sentirmi un Dio per qualche giorno, mese, anno. La verità è che le cose, quelle materiali, durano troppo poco. Il libro finisce, le macchine invecchiano ed i vestiti si logorano.

Nel rapporto tra madre e figlio, quando il bimbo diventa adulto, come il sottoscritto, tanti psicoanalisti parlano di traumi del passato, non so se per moda, per narcisismo, per aumentare il numero delle loro pubblicazioni scientifiche o per ferire il paziente, che alla madre non può non voler bene.

Io sono stato un bambino felice. Felice, ma solo. Non ho memoria di aver giocato con un mio coetaneo, di essermi confrontato con un mio coetaneo, di aver scordato di essere adulto, perché ero bambino.

I miei amici erano mamma e papà, nonno e nonna. Nonno mi metteva a leggere per ore, la nonna mi portava al parco con i cani, a comprare i vestiti, a fare la spesa. Erano i mesi estivi. Quando la scuola finiva, mamma lavorava ed io venivo mandato in campagna, a giocare.

Al liceo ho avuto qualche compagno di classe, ma nessun amico. All’università, credevo di essere in un teatro vuoto. Nessuno mi rivolgeva la parola, ed io mi guardavo bene dal farlo. Ho fatto i miei esami, senza colpo ferire, laureandomi ed invitando alla seduta di laurea pochi parenti e qualche persona cara.

Vivo di tanti ricordi perché le persone con le quali sono cresciuto e che erano mie amiche sono tutte morte, perché erano vecchie, nulla di strano.

Ho amato mio nonno, il padre di mia madre, medico valoroso e militare in due guerre, a tal punto, da renderlo il mio unicum per ventitré anni. Quando è morto, sono andato fuori di testa. Frasi del cazzo, del tipo: “un pezzettino del mio cuore se ne va con te”, oppure, “nonnino proteggici da lassù come hai fatto qui in terra”, le lascio ai preti vergini ed indottrinati che tengono la mano a vecchie vedove in cerca di consolazione, come direbbe Clint Eastwood in “Gran Torino”.

Io ho perso il mio migliore amico. Ma sono io che ho sbagliato, forse con la complicità di mia madre. Perché lui è morto di vecchiaia mentre io avrei dovuto, nella mia adolescenza, inseguire le ragazzine, pisciare in compagnia e farmi le seghe con i miei coetanei. Ma trovavo più affascinante stare con lui.

 Il tema della morte mi sovrasta e mi preoccupa.

Ho un cane, un lagotto di nome Emma, con il quale preferisco andare in giro per parchi, che non stringere la mano di una ragazza bella e baciarla al chiaro di luna.

Credetemi se vi dico, amici che mi leggete, che non posso pensare che tra qualche anno, Emma non ci sarà più. La mia partner, la mia amica, la mia fidanzata, la mia complice.

Cosi passano i giorni che non sono altro che sequenze, attimi, istanti. Vasco Rossi, dice che:” la vita è un brivido che vola via e tutto un equilibrio sopra la follia.”

Vedere i propri genitori invecchiare e le persone che ti stanno vicino sparire è disarmante.

Così per mio padre Gianni (che mi sorprese regalandomi/regalandosi una Porsche tanti anni fa) che mi ha insegnato a sciare, a guidare e ad andare in barca.

Io però, scrivo queste parole, perché siano da monito per voi, lettori che mi seguite. Onorate il padre e la madre, sempre ed in ogni momento, ma sceglietevi un amore, un’amicizia, un affetto da afferrare, quando la madre viene a mancare, quando il padre non c’è più, i nonni scappano ed i parenti rosicano. Cercate insomma, di non vedere tutto in termini di rapporto tra madre e figlio, tra padre e figlio, come ha fatto il vostro Tommaso. Insomma vedere il mondo in senso maternalistico e paternalistico.

Amo molto un autore che ha avuto una vita rocambolesca, piena di gioie e dolori, di delusioni e di successi. Si chiama Pierpaolo Pasolini. Ogni volta che gli chiedevano di raccontare qualcosa su sua madre, di ricordarla, a lui veniva in mente sempre la stessa immagine:” Siamo a Sacile, nella primavera del 1929 o del 1931, mia mamma ed io camminiamo, intorno a noi ci sono i cespugli appena ingemmati, ma le primule sono già nate. Ciò mi dà una gioia infinita. Stringo forte il braccio di mia madre e affondo la guancia nella sua povera pelliccia. In quella pelliccia sento il profumo della primavera, un miscuglio di gelo e tepore, di fango odoroso e di fiori ancora inodori, di casa e di campagna. Questo odore della povera pelliccia di mia madre è l’odore della mia vita”.

Il padre perduto in infanzia, il trasferimento a Roma, il fratello caduto nella grande guerra. Pasolini era sua madre, e per Pasolini la madre era la cosa più importante della sua vita.

Nel 1962, nella raccolta “Poesie In forma di rosa”, Pasolini parla di questo amore immenso e costante, che vive di alti e bassi che lo annienta per poi rinsavirlo.

“E’difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima di ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò che è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la mia vita, che mia hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore dei corpi dell’anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre ed il tuo amore è la mia schiavitù.

Ho passato l’infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita, l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita. Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo con te, in un futuro Aprile”.

Non restate schiavi di vostra madre, amatela. I miei traumi, che non voglio e non oso comparare a quelli di Pasolini, non mi hanno portato alla sua omosessualità.

Proprio Freud, parlando di un altro grande artista, legato indissolubilmente alla propria madre, come Leonardo Da Vinci, spiegava, che l’omosessualità è una “fissazione del bisogno di amore alla madre”. La persona omosessuale, rimane nell’inconscio fissata all’immagine della madre, e mentre egli corre dietro ai ragazzi, in realtà fugge davanti alle altre donne, che potrebbero renderlo infedele.

Insomma guardate vostra madre e vedrete l’amore più puro che vedrete mai, otterrete da lei sempre il perdono, troverete la tenerezza migliore, più altruista e vera. Dietro tutte le storie, c’è sempre la storia di una madre. Perché, se ci pensate bene, è dalla loro storia che inizia la nostra.

Ma tenetevi stretta la vostra vita, che è solo vostra. Perché un giorno vi ritroverete soli e dispersi, e non saprete cosa fare. Nulla vi sembrerà più bello, più disincantato come stringere al petto vostra madre, vostro padre. Cercherete dei surrogati che non esistono, ma potrete amare a questo punto un’altra donna.

Non fate come me o Pasolini, che ci siamo trovati senza via di scampo, senza appigli. Nella vita bisogna avere sempre un piano di riserva, anche se il piano B non ci convince, il piano B ci farà sopravvivere, che è meglio di stare soli o morire.

Un abbraccio, Tommaso

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