Roberto Vecchioni: “Tra il silenzio ed il tuono“

Roberto Vecchioni: “Tra il silenzio ed il tuono“

Un romanzo che grida il dolore, che ha sete di raccontare, che ci provoca con i suoi aneddoti ed i suoi aforismi, che ci fa ridere, con le sue parole sconce, mai volgari e messe sempre al posto giusto e nel momento opportuno.

Mentre mi accingo a scrivere questo bel testo, hanno proprio iniziato a rompere i coglioni con il martello pneumatico nello stabile a fianco. Una bellissima sinfonia, che addolcisce i miei timpani. Poi il rumore non è continuo, no, è intermittente. Colpetti, un colpo secco e poi si ferma. Perfetta ode all’idiozia umana. Io detesto chi ristruttura case. Il superbonus edilizio è stato peggio di vedere invecchiare Sharon Stone, dopo averla ammirata sconciamente in Basic instict.

Ma non divaghiamo. Perché, che c’entra il martello pneumatico con Roberto Vecchioni? Ah sì, la mia recensione. Beh, Vecchioni è unico nel suo genere. Almeno come scrittore. Perché fonde, nei suoi romanzi, il proprio essere, con i più svariati miti della storia, della letteratura e dell’arte. Non tanto per descriverne le gesta, piuttosto come espediente per rappresentare una parte di sè, del suo intimo e profondo sentire.
D’altra parte, egli è un uomo capace di esprimere con garbo i sentimenti, perché educato alla cultura classica. Nasce a Milano da genitori partenopei, cresce e si forma in un ambiente cristiano, per poi, giustamente, diventare ateo e comunista. Rappresentante di spicco del movimento del “68” non violento, che predicava con fervore il motto “peace and love”, diventa un grande grecista, affermato insegnante e popolare cantante.
Un cantante popolare, nel vero senso della parola. Un nostalgico puro, un uomo impegnato, mai scontato. Nel 1977, con Samarcanda, contenuto nell’album omonimo, racconta la leggenda di un soldato che fugge dalla morte, raffigurato da una nera signora. Il periodo bellico più increscioso per gli Stati Uniti è appena concluso, con la più catastrofica guerra, quella del Vietnam, costata la perdita di tantissimi militari e parecchi milioni di dollari.
Vecchioni non dev’essere restato immune a tutto ciò, mentre componeva questi versi:

Ridere, ridere, ridere ancora
Ora la guerra paura non fa
Bruciano nel fuoco le divise la sera
Bruciano nella gola vino a sazietà
Musica di tamburelli fino all’aurora
Il soldato che tutta la notte ballò
Vide tra la folla quella nera signora
Vide che cercava lui e si spaventò
Salvami salvami, grande sovrano
Fammi fuggire, fuggire di qua
Alla parata lei mi stava vicino
E mi guardava con malignità
Dategli, dategli un animale
Figlio del lampo, degno di un re
Presto, più presto perché possa scappare
Dategli la bestia più veloce che c’è

Corri cavallo, corri ti prego
Fino a Samarcanda io ti guiderò
Non ti fermare, vola ti prego
Corri come il vento che mi salverò

Ehm, dicevo, uomo impegnato. Impegnato, ma non impiegato, sempre con il cuore ribelle, come quello di un giovane ragazzino. Questo è Roberto Vecchioni. Come quando, verso la fine degli anni Settanta, viene accusato di spaccio di sostanze stupefacenti dal giudice istruttore di Marsala, per aver offerto uno spinello ad un quattordicenne, durante una Festa dell’Unità.
Viene arrestato e detenuto in attesa del processo, poi rilasciato dopo alcuni giorni. Questa vicenda viene raccontata in una paradossale canzone: “Lettere da Marsala” e “Signor Giudice”. La sua vicenda personale, fu esacerbata dal fatto che egli dovette attendere in prigione il rientro dalle ferie del giudice.
Altra bellissima canzone fu “Luci a San Siro” del 1971, anno in cui scrive anche il testo dell’inno all’Inter, squadra di cui è grande tifoso. Ma fermiamoci qui.
Roberto Vecchioni è uno scrittore, questo è chiaro. Ma anche un lottatore. Ha combattuto tre mali incurabili ed ha subito un infarto. D’altra parte lui non si è mai risparmiato. Fumatore accanito, forte bevitore, ha cercato nei vizi, quello che forse gli faceva paura nella vita: il grande successo. Vincere il festival di Sanremo, non è da tutti. Soprattutto quando dietro alle spalle hai un figlio al quale è appena stata diagnosticata una sclerosi multipla.
Per questo lo definisco grande pugile sul ring della vita. Anche in questo suo ultimo romanzo, costruito come un immaginario dialogo, tra un nonno che rimane tale negli anni che passano ed un nipote che rimane sempre giovane, Vecchioni ripercorre la propria vita. Il proprio passato, che ci disturba sempre un pochino. Il suo primo amore con la fantomatica Arianna, che lo lascia mentre amoreggiano in macchina ai Bastioni di Porta Nuova, per uno svizzero conosciuto a Bellaria in vacanza, i suoi esami all’università, i suoi vizi e le sue virtù. Ah, per inciso, faccio i miei complimenti a Vecchioni, per aver gareggiato con Francesco Guccini, suo grande amico e collega, nel bere in meno di un’ora una intera bottiglia di whisky.
Ha suscitato tenerezza, il racconto del padre, grande scommettitore, che si perse un patrimonio nel gioco d’azzardo, arrivando a farsi costruire una villetta, proprio di fronte al casinò di Saint-Vincent, per maggiore comodità, si intende.
Sempre il padre, però poi, si redime. Smette di giocare, recupera con il lavoro i soldi perduti e verrà riportato in una sala scommesse, dai suoi figli, in un intimo gesto di amore.
Veramente divertente, lo scambio di battute, vero o presunto, con il suo docente di letteratura greca all’università, durante un esame. Questo procede con la benedizione del “chi più ne sa, più ne dica”, e la sparata provocatoria del Vecchioni, che chiede all’esimio professore, gli autori del Philogelos, una raccolta di barzellette. Alla domanda, l’interessato risponde a tono, affermando che lo stupido libello, altro non è che una puttanata. L’estratto di una barzelletta, merita un accenno: un padre scopre il figlio che si sta montando la nonna. Incazzatissimo gli fa:” ma tu ti stai scopando mia madre!” E il figlio:” E tu allora cosa stai facendo con la mia?” Per poi concludere l’esame con un trenta e lode, ed una vittoria per entrambi: ne sapevano tanto.

È struggente pensare che mentre scriveva questo libro, Vecchioni aveva perso da poco suo figlio Arrigo, portato via troppo presto da un male inguaribile. Per questo nel libro si fa spesso riferimento, al dolore, che corre come l’amore, l’amicizia, la morte. Tutti hanno la stessa forza propulsiva.
Per Vecchioni, l’uomo che soffre è sempre un uomo nuovo di fronte agli altri, ma soprattutto di fronte a sè stesso. L’uomo che soffre, come Vecchioni in questo libro, ha difficoltà a comunicare il proprio dolore, il suo soffrire.
La sua comunicazione si pone come un problema nel problema, che spesso porta ad isolamento, senso di precarietà e solitudine. Vecchioni ci sprona a non cadere in questa trappola. Lo fa con le sue parole più belle, più vere, più amare.
Insomma, come diceva il superbo ed impassibile Nietzsche: ”Prima che il destino ci colpisca, bisogna condurlo per mano come un bambino e dargli la frusta: ma quando ci ha colpito, bisogna amarlo”. Forse Vecchioni voleva dirci questo, quando ha scritto “Tra il silenzio ed il tuono?” che sapere è soffrire, come lui afferma in un capitolo dedicato ad Eschilo, ma anche soffrire è sapere.
Si tratta di bilanciare il tutto, di riconoscere la stessa bellezza della gioia anche nel dolore, che ci insegna sempre qualcosa, che ci rende più maturi, più consapevoli e forse più felici. Un bellissimo inno alla vita, vissuta come si può vivere la morte, con la stessa tranquillità e la stessa fiducia.

Nulla di brutto ci può accadere, non siamo in punizione. Stiamo solo soffrendo per un dolore. Questa è vera vita, che merita di essere vissuta appieno.

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