Tra il serio ed il faceto: Santi e Bevitori (Lawrence Osborne)

Tra il serio ed il faceto: Santi e Bevitori (Lawrence Osborne)

Se non siete dei viaggiatori sognatori, dei bevitori che sanno assaporare il gusto della vita e vivere il piacere che può dare o avere in mano un calice di buon vino, un Gin Tonic ben fatto, od uno champagne bevuto freddo, guardando un bel panorama, beh questo libro non fa per voi.

Ma, senza darsi all’edonismo più sfrenato, che poi diventa noioso e ripetitivo, allora abbandonatevi alla lettura di questo libro. Ho scoperto questo scrittore per caso, leggendo diari dei suoi viaggi fatti in terre straniere, con il piglio giornalistico che lo contraddistingue e la classe che ogni inglese altolocato ha innata nel suo animo.

Viaggio alcolico in terre astemie”, spiega come Osborne vada a bere, o cercare di bere, lì dove la religione, gli usi o i costumi lo vietano o sempre meno lo tollerano: Pakistan, Indonesia, Malesia, Emirati ed Oman.

Come vi dicevo prima, non bisogna confondere bevitore, termine ambiguo, con alcolizzato, spesso ingentilito con il termine alcolista, altre volte involgarito con l’ubriacone tout court, stadio finale e terminale, degno di cure palliative, a meno di una totale disintossicazione, di ciò che in circostanze tutt’altro che particolari o rare, può condurci alla sbronza, lì dove all’ebbrezza alcolica, sentimento da molti osteggiato, da altri apprezzatissimo, fa quasi sempre da contrappeso, il giorno dopo, il mal di testa ed uno stato di semi catatonia.

Si perché i detti non nascono a caso. Da “di notte leoni e di giorno coglioni” a “facciamoci una bevuta”, il piacere del bere non si deve negare a nessuno.

Adesso non voglio che andiate nell’enoteca poco distante e compriate il miglior gin, la miglior vodka, il prelibato rum. Fatelo, ma gustatevi il sapore, prima ancora che la sensazione di onnipotenza soporifera e ansiolitica che l’alcol sa darci. Non state a sentire, vi prego, I soliti medici bacchettoni e puritani, che vi diranno che l’alcol è cancerogeno, poco prima o poco dopo aver bevuto e fumato loro stessi.

La sbronza come conseguenza, e non come intenzione, è del resto, elemento distintivo di ogni bevitore che si rispetti, ed è un qualcosa che certamente ha anche a che fare, con la nazionalità e la cultura di cui ognuno di noi è portatore.

Non a caso Osborne, inglese fatto e finito, definisce il rapporto dei suoi connazionali  con l’alcol “primitivo, violento, addescatore”. Non riuscendo a sopportarlo.

Nel suo libro, cita Roland Barthes, e l’approccio francese al bere, laddove “il bicchiere è percepito come il dispiegarsi di un piacere, non come la causa necessaria di un effetto desiderato”. Il vino nonè solo un filtro, è anche atto durevole del bere, e lo stesso, dice sempre Osborne, si può dire di noi italiani. L’ho capito da quando sono nato, nelle Marche, dove spesso posso approfittare della dimora dei miei nonni. Come non si può rimanere affascinati, da quelle colline carezzate dal sole e marezzate di oro e blu e quei vitigni, carichi di bell’uva, che un giorno, un mese, anni dopo, diventeranno uno splendido Verdicchio, un sublime Rosso Piceno, un soave Rosso Conero o un gustoso Bianchello del Metauro.

Beh, ora Osborne dice che che va avanti a pane e acqua, si fa per dire. Ha dato tutto il suo fegato all’alcol, e non ne può proprio più. Tant’è, che il libro è di una dozzina di anni fa, là dove in una sequenza sensazionale, dopo undici mai tai, mandati giù di seguito, si esibì in un tuffo carpiato in una piscina di un albergo di Abu Dhabi, rimanendo incosciente sul fondo, salvato  dall’annegamento e messo a letto dai camerieri, improvvisatisi bagnini.

 In una recente intervista, raccontò anche la sua avventura in un bar di Brooklyn dopo 28 shot di vodka, la perdita di conoscenza in una discoteca russa, ed il recupero da parte della polizia. Immagino il dopo-sbronza: non dei più felici.

Un pò di tutto questo, fa di questo libro “Santi e Bevitori”, un testo forse malinconico, se non triste, nonostante il senso dell’umorismo fortissimo in Osborne.

Il suo occhio divertito per quelle che sono le stranezze e le assurdità della vita.

Lui non e’ il bevitore compulsivo o accanito, tutt’altro. Egli, stranamente, appartiene a quella sfera mediterranea per la quale il bere è un piacere, un’estetica, se si vuole essere colti, l’ebbrezza dionisiaca della “pura luce della piena estate”. Il suo viaggio per certi versi ossessivo e irritante, alla ricerca di una birra, o di una bottiglia di Champagne, lì dove l’una o l’altra sono una sfida all’ordine costituito, assume lo stesso sapore nichilistico con cui il mondo arabo, cede alla tentazione alcolica del proibito: la trasgressione, quindi l’infrazione, l’abbattimento di un tabù, non il godimento, tanto meno il gusto.

Si beve, paradossalmente, in odio a sè stessi, in una forma di peccato che è poi, una punizione.

Però questo scrittore, giornalista, reporter, bevitore, mi piace. Romanziere di successo, che dà il meglio di sé nella letteratura di viaggio, lì dove non c’è un obbligo di trama o di personaggi, ma il racconto si nutre di impressioni immediate, suggestioni, riflessioni.

Tipo le vecchie domeniche passate d’inverno, con la copertina sulle gambe, a sentire Licia Colò che ci portava in posti meravigliosi, senza muoverci dalla nostra poltrona, con il suo imperituro programma “Alle falde del Kilimangiaro”.

In questo romanzo, c’è, evidentemente, un altro tipo di reportage, non meno interessante: quello di paesi che concepiscono il bere in modo totalmente diverso.

Interessante, a mio parere, la nascita del mitico luogo che è il bar, dove più persone, unite da un medesimo scopo, si ritrovano a gozzovigliare, passando pomeriggi importanti e ricchi. Certo, non condivido la natura di bar, come esercizio di solitudine, proposto da Osborne, che ci dice come questo debba essere “un luogo silenzioso, buio, molto ospitale, e senza musica di alcun genere, nemmeno a basso volume”.

Una idea da naufraghi di un mondo scomparso. Tuttavia, il bar, già nel Settecento, sotto forma di caffè a Londra e Parigi, prende il via. Lì nasce la cultura della politica moderna. Nei caffè, nei bar, sono nati movimenti culturali, poesie, si sono corteggiate donne, si sono organizzate bande criminali.

Basti pensare che la “Banda della Magliana” faceva dei bar, il suo punto di ritrovo. Come una biblioteca per un uomo curioso. Questo spiega al contempo, l’alterità rispetto al mondo islamico tradizionale, alla sua idea di città: la moschea, la scuola, o madrasa, insieme al suq, al bazar, sono gli unici veri luoghi pubblici della città mussulmana tradizionale.

La strada è un viottolo fra case private, che lo costeggiano e lo ostruiscono, in un ammasso disordinato di cortili rivolti all’interno. La città mussulmana, è una creazione della sharia: un alveare di spazi privati, fabbricato cella su cella.

Oggi tutto questo non c’è più, nella strana ed incomprensibile (almeno per me) artificialità verticale, degli emirati del Golfo Persico o del centro storico di Beirut, rifatto ex novo dagli architetti della società solidare ed oggi in procinto di essere teatro di nuovi e tragici scontri bellici.

Il Cairo, città che negli anni settanta, incarnava la grande capacità egiziana di accogliere culture diverse e fonderle in un unico crogiolo umano, ora e’ piombato nella morsa del pensiero wahabita-salafita, al quale la versione egiziana aperta e moderata ha ceduto il passo.

Insomma nell’attesa di assaporare il nostro drink, non resta che consolarci, con quella canzone di Cole Porter che diceva:” They have found the fountain of Youth, is a mixture of gin and vermouth.” Scherzi a parte, mi viene in mente la frase di un simpatico conduttore televisivo americano, tale Johnny Carson, che diceva:” Conosco un uomo che ha smesso di bere, di fare sesso, e di mangiare pesante. E’ rimasto in salute, fino a che non si e’ suicidato”.

Buona lettura. Ah, questo è il nostro secondo libro dell’estate, fatene tesoro.

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